Il pane della trascendenza, di Luigi Viola

La rappresentazione del pane nella tradizione ebraica, apre a varie declinazioni di significato, da quello originario di nutrimento-alimento, di sostentamento, di cibo come dono del Signore che si prende cura del suo popolo, espresso dalla parola lechem, che vanta nella Bibbia più di 280 citazioni (conteggiando anche le diverse tipologie di pane, arriveremmo a più di 600) fino alle più complesse e specifiche accezioni antropologiche e rituali che lo connotano e che cercheremo in parte di raccontare, mettendo in evidenza anzitutto il valore più importante, relativo alla sua capacità di dare trascendenza all’esperienza del cibo, evidenziando quindi il legame che unisce terra e cielo, bisogni del corpo e dello spirito. 

Per questo possiamo dire con certezza che il pane è al centro di una straordinaria esperienza di incontro e di relazione tra uomo e uomo e tra uomo e Dio, come nell’episodio di Abramo che in Gen.18 chiede a Sara di cuocere delle focacce per i tre pellegrini nei quali egli vede Dio stesso e che oggi, come nel passato, sostiene la nostra esperienza di vita, ki lo al haLechem levadò ichià haAdamperché non solo del proprio pane vivrà l’uomo (Devarim/Deut.8:3).

Georg Baselitz, Brotteller (Piatto di pane), ca. 1994–1995, xilografia a colori su carta vergata, cm 74×104

Dopo la distruzione del secondo Tempio, l’altare è stato simbolicamente sostituito dalla tavola familiare, considerata come un Mikdash Ma’at (un santuario in miniatura), e il Pane della Presenza dai pani di Shabbat1

Pertanto, se la tavola è un altare, ciò vorrà dire che il cibo costituisce l’offerta ivi consumata e che ogni volta che noi apprestiamo la tavola, ripercorriamo i significati simbolici di tale atto, ricordando anzitutto come i bisogni del corpo siano indiscutibilmente una cosa importante e vadano dunque assolti come una mitzvah2, perché è HaShem3 stesso che ad ogni essere vivente ha dato insieme la vita e i mezzi per sostenerla.

La sacralizzazione della tavola conduce con sé una peculiare visione del mondo, che deve aiutarci a mantenere un giusto equilibrio tra ciò che consumiamo (che non può essere sprecato per rispetto alla natura e al lavoro dell’uomo) e le risorse non illimitate che ci sono date. Ed ancora, come è ben indicato nel gesto dello spezzare il pane, noi, sedendoci a un desco comune, mostriamo come la condivisione sia l’elemento primario di una empatia verso il prossimo che sottrae il cibo alla sua pura funzione biologica rendendolo oggetto di una specifica costruzione valoriale. 

In qualche maniera si manifesta nel gesto di nutrirsi la consapevolezza implicita che, nel momento stesso in cui ogni singola creatura riceve il proprio alimentum, la sostanza vitale disposta dal Creatore, si impone anche un dovere di Tzedakà o giustizia, coerentemente con il diritto inalienabile di ciascuno alla vita e a un’equa distribuzione dei beni comuni. 

Quando ciò non avviene e spesso non avviene, allora l’insegnamento della Torah4 e la voce dei Profeti devono risuonare in noi con la potenza di uno shofar5 fino a scuotere i muri dell’indifferenza.

Maris Kasymovich Khitakhunov, Pane, 1965, olio su tela, cm 113×153, Coll. The National Museum of Kazakhstan

Tornando al pane noi possiamo distinguere dal punto di vista spirituale tra tre diverse specie di pane: Lechem min haShamaim, Lechem min haAretz, Lechem onì6.

Lechem min haShamaim è la manna, il cibo profumato del cielo destinato a sostenere il popolo ebraico durante il suo attraversamento del deserto, infondendo la fiducia e la forza necessarie per procedere verso la terra promessa.

Peraltro il pane del cielo, distribuito nella misura del bisogno e destinato a un consumo soddisfacente ma senza eccessi e vani accumuli, in doppia porzione solo il venerdì per consentire la celebrazione del riposo sabbatico, trova il suo doppio nel pane della terra, conquistato dall’uomo con il proprio lavoro, simbolo dell’opera dell’ottavo giorno che continua e completa la costruzione Divina del mondo.

È quest’ultimo il pane che veniva portato fragrante al Tempio ogni Shabbat, i dodici Pani della Presenza, lechem panim, che rappresentavano le tribù di Israele, dati in offerta ai cohanim (Sacerdoti), per onorare attraverso la terumah (offerta elevata) la presenza divina preso il popolo di Israele.

Louise Bourgeois, Avenza, 1968-69, latex e fiberglass, cm 53.3×76.2×116

Stiamo parlando della challah, il pane intrecciato, lievitato, dolce e morbido che ancora oggi si trova sulle tavole del Sabato e – con forme diverse a seconda dei significati simbolici – sulle tavole delle principali ricorrenze, tenendo conto, come abbiamo già detto, del valore paradigmatico che la tavola è venuta assumendo dopo la caduta del Tempio, sostituendo di fatto l’altare del sacrificio. 

Tra i vari tipi di pane bisogna ricordare anche l’azzima non lievitata, la matzah, il lechem onì che viene consumato nel periodo di Pesach, la Pasqua ebraica, in ricordo della conquistata libertà dalla schiavitù d’Egitto. 

Challah deriva da chalal (perforare, fare un buco) e si riferisce in origine non al pane, ma al pezzo di impasto che viene prelevato in offerta a HKBH7 e dato a un Cohen (sacerdote del Tempio): “Della prima parte dei vostri impasti darete una focaccia (challah) qual tributo. Come il tributo dell’aia così la preleverete.” (Bemidbar/Num.15:20).  

Dopo la distruzione del Tempio, i chachamim (saggi), per non far dimenticare quest’obbligazione, istituirono un cambiamento e oggi, la challah – termine biblico il cui uso riferito ai pani dello Shabbat è molto tardo, essendo stato registrato per la prima volta in Austria nel 1488, nel saggio Leket Yosher del talmudista bavarese Joseph ben Moses che descriveva i pani serviti per Shabbat dalla sua insegnante tedesca – viene prelevata e bruciata, invece di essere donata. In tutte le case ebraiche, un pezzo di almeno 30 grammi di impasto è prelevato prima di formare le trecce, avvolto in carta stagnola e bruciato nel forno8

Dragoljub Raša Todosijević, Nailed Bread, 1973, pane, legno e chiodi, 26×35×14.5 cm. Courtesy Museum of Contemporary Art, Zagreb. Photo: Jovan Kliska.

Tuttavia l’obbligo di prelevarla dipende dalla quantità della farina e dagli ingredienti dell’impasto. Essa si preleva unicamente da challot fatte con farina di grano, orzo, avena o spelta che contengano acqua nell’impasto. 

Non si preleva la challah da impasti che usano meno di 1200 grammi di farina. Si preleva senza berachà (benedizione) se la farina pesata è almeno 1200 grammi. Si preleva invece con l’apposita berachà quando la farina pesata è 1600 grammi o più. Inoltre, mentre nell’antichità, per tradizione, si trattava di un pane non lievitato, dunque azzimo, fatto di cereali originari della terra di Israele, oggi la challah è un pane lievitato e soffice, di gusto leggermente dolce, come la manna del deserto che vuole evocare sia nel sapore che nel colore, ed è una delle componenti essenziali del pasto di Shabbat ma anche delle altre festività (esclusa Pesach, quando far lievitare il pane non è consentito). Il compito di prepararlo e di prelevare l’offerta dall’impasto, è compito femminile come lo è l’accensione delle candele.

Salvador Dali, Pane antropomorfico, 1932, olio su tela, cm 24×33. 

In osservanza alla legge della kasherut9 che stabilisce che il pane consumato di sabato deve essere parve10, esso non contiene burro o latte ma olio vegetale, sicché possa essere mangiato insieme con la carne oppure con il latte, senza contravvenire al divieto di mescolanza. Sulla tavola di Shabbat ne sono presenti due, a misura della doppia porzione di manna che veniva elargita agli israeliti nel deserto alla vigilia del sabato e delle feste. 

La sua forma a treccia simboleggia con evidenza una ghirlanda nuziale e infatti in tutta la simbologia ebraica il Sabato è paragonato alla sposa, come recita il lechah dodi11.

La treccia è formata da 3-4 e 6 capi ed ogni tipo di intreccio ha un significato preciso nella tradizione: una treccia a due simboleggia l’amore, una a tre la pace, la giustizia e la verità, una treccia a 12 o due da 6 servite insieme, rappresentano le 12 tribù di Israele e questa è una delle varianti meno diffuse tra gli ebrei europei.

Le pagnotte sono custodite all’interno di due panni di stoffa bianchi, uno al di sopra ed uno sotto, (dekel mapah) per ricordare anche lo strato di rugiada che ricopriva sotto e sopra questo cibo celeste. 

Concetto Pozzati, Pane quotidiano,1986, pittura ad acrilico/ gesso/ carbone su carta, cm 76×56. Galleria Civica – Fondazione Modena Arti Visive n.758/90.

C’è un ulteriore e non trascurabile significato simbolico suscitato dall’intreccio delle challot. 

Lo Shabbat rappresenta infatti l’idea dell’unità. Nello stesso modo in cui gli altri sei giorni della settimana sono espressione del molteplice, come le sei direzioni del mondo tridimensionale: nord, sud, est, ovest, sopra e sotto, sicché siamo impegnati in azioni e iniziative rivolte all’esterno, così Shabbat rappresenta invece la direzione opposta, orientata verso l’interno, verso lo spirito, che ci rende colmi di unità interiore con la quale si associa la Pace, l’Armonia, la Pienezza. Per questa ragione ci auguriamo Shabbat Shalom, Shabbat di Pace e di unità, integrità, pienezza. 

L’intreccio delle challot rappresenta bene quest’idea di unità che consiste nel ricollegare ogni cosa insieme, unendo le diversità della nostra vita in una pacifica armonia e unità che solo a Shabbat appunto possiamo raggiungere e realizzare pienamente, nel rigoroso rispetto del riposo (menuchah) settimanale, la più grande e antica conquista etica dell’umanità.

Louise Bourgeois, Distruzione del padre, 1974, legno, cm 237×362

La forma delle pagnotte intrecciate inoltre ricorda molto quella dei semi di grano sorretti dallo stelo, a testimoniare il patto con D-o, nel creare il pane dalla terra. Spesso le pagnotte sono ricoperte con semi di papavero o con del sesamo, come simbolo della manna che cadde nel deserto. Ma le challot possono essere impastate in forme diverse, a seconda delle festività. A Rosh-HaShanah12, ad esempio, la challah è spesso realizzata in forma circolare, oppure a spirale, a forma di alveare o a forma di corona come simbolo del ciclo degli anni nella speranza di un nuovo anno che sia completo e armonioso. Ad Hanukkah13 invece, la pagnotta può avere la forma di una menorah14, mentre a Purim 15viene realizzata una treccia gigante chiamata keilish che rappresenta la lunga cima usata per impiccare Hamàn oppure la challah viene realizzata a forma di triangolo, la stessa dei dolcetti tipici di questa festa: gli Hamantashen o orecchie di Haman

Zhanna Kadyrova, Palianytsia (Bread), 2022, pietre tagliate e lucidate

Un pane che evoca un momento fondamentale della storia ebraica è la matzah, il pane azzimo, simbolo centrale di Pesach (Pasqua), il pane della povertà, dell’afflizione, ma anche il pane della risposta (lechem onì dalla radice laanot = rispondere).
Il pane azzimo era uno degli alimenti che agli Ebrei in Egitto fu comandato di mangiare insieme all’agnello pasquale (Shemot/Es.12: 8). In commemorazione di quel primo pasto di Seder e della fretta con cui gli Ebrei lasciarono l’Egitto – non dando loro il tempo di far lievitare il pane – ancor oggi si mangia la matzah al Seder16 di Pesach17 (e per tutta la durata della festività al posto del pane, mentre tutto ciò che può essere hametz viene allontanato dall’abitazione). Quel magro sostentamento da schiavi, quel cibo velocemente prodotto da chi si sta apprestando a scappare nel buio della notte, rappresenta però la libertà, il pane che abbiamo mangiato quando siamo stati liberati dalla schiavitù.

Zahrah Al Ghamdi, Mycelium Running, 2018, installazione

Nella cultura tradizionale ebraica, importanza e rilevanza profonda assume anche il gesto dello spezzare il pane: il pane era un alimento fondamentale e spezzarlo significava volerlo condividere con qualcuno. La maggioranza del popolo ebreo mangiava lo stesso tipo di pane, mentre le classi sociali più abbienti potevano scegliere tra circa quaranta tipi di pane: rotondi, conici, con erbe, con miele, ecc…  Molto diffuso era anche il pane d’orzo, mentre il pane di frumento era fatto in tre modi diversi, dal più rustico al più fine, ottenendo così un pane di uso comune o un pane da festa. Ad esempio, Abramo ordinò a sua moglie di preparare un pane fine per il Signore: “Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce”. (Gen. 18, 6).

Salvador Dalí, in occasione della Fiera di Parigi, accompagnato da una schiera di panettieri mascherati con baffi finti, Dalì sfilava in processione con una baguette lunga ben dodici metri, 12 maggio 1958

Naturalmente, in quanto simbolo potente, il pane presenta molteplici significati sia negativi che positivi.

Prendendo in esame la simbologia negativa del pane occorre partire dall’ origine della creazione, quando Dio, dopo aver generato il mondo, pone l’uomo nel paradiso terrestre. Il genere umano che si cibava di prodotti della natura, è però successivamente cacciato dal Gan Eden: il Profeta Isaia, riferendosi alle conseguenze parla del pane dell’afflizione “Anche se il Signore ti darà il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione, tuttavia non si terrà più nascosto il tuo maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo maestro” (Is. 30,20). Nei Salmi troviamo un pane di lacrime “Tu ci nutri con pane di lacrime, ci fai bere lacrime in abbondanza”. (Sal. 80,6) “Di cenere mi nutro come di pane, alla mia bevanda mescolo il pianto” (Sal. 102,10) e addirittura un pane dell’empietà mangiano il pane dell’empietà e bevono il vino della violenza(Pr. 4,17).  

Mario Schifano, scultura di pane, 1996. L’artista nella sua casa-studio ha creato una scultura fatta di pani, sullo sfondo di una tela che ne rappresentava sommariamente i contorni. L’opera è testimoniata esclusivamente da alcune fotografie di Mimmo Frassineti, postate online (http://socialphotolab.com) il 25 Luglio 2015 by Mimmo Frassineti

Tuttavia, nell’ ebraismo predomina il contesto positivo nel quale vengono collocati il grano e il pane. Tutti i primi frutti del raccolto venivano offerti a Dio: importanza particolare è riservata alla Festa del Raccolto, chiamata anche Festa delle Settimane (Shavuot) perché celebrata dopo sette settimane (sette giorni per sette settimane rimandano ai 50 giorni dopo Pesach, che in greco prende il nome di Pentecoste): era l’occasione per offrire ad Hashem due pani di grano.

Anche se alcuni ebrei, soprattutto askenaziti lo fanno, la challah deve essere spezzata sempre con le mani e mai tagliata. Il coltello è simbolicamente un oggetto di violenza e guerra non ammesso sull’altare di Dio. I pezzi di challah spezzati vengono lanciati ad ogni commensale per rafforzare il concetto che il cibo viene dal Signore e non dall’ospite. 

Si può anche mettere sul tavolo in modo che ciascuno possa prendere il proprio pezzo, ma non si da direttamente in mano, poiché questo è un segno di lutto.

Prima di spezzarla e dividerla tra i commensali, viene recitato l’Hamotzi

Baruch atà Adonai Eloheinu Melech haolam, hamotzi lechem min haaretz“.

(Benedetto tu sia Signore, nostro D-o Re dell’universo, che fai uscire il pane dalla terra) e successivamente i pezzi si intingono nel sale prima di essere consumati. 

Salvador Dalì, Candelabro di pane. Nel 1971 Dalí chiese a Lionel Poilâne, titolare di una nota boulangerie parigina, ancora esistente, di costruire l’arredamento di un’intera camera da letto. L’oggetto più impegnativo fu l’armadio, alto un metro e settanta e pesante circa settanta chili (di cui trentacinque di farina). Di questo “arredamento” è rimasto soltanto il lampadario, conservato proprio presso la boulangerie, di tanto in tanto rinnovato nelle parti edibili, per ovvi motivi

Perché nel sale? Se la tavola è un altare, il cibo che si mangia su di essa è un’offerta. Riguardo all’offerta, Levitico 2:13 recita: “Condirai con sale ogni oblazione e non lascerai la tua oblazione priva di sale, segno del patto del tuo Dio. Su tutte le tue offerte metterai del sale“. Per questa ragione, mettiamo sale al nostro cibo base, il pane. 

Da una prospettiva più mistica, in accordo con la Kabbalah, il sale che è amaro, rappresenta la severità divina e il pane, la gentilezza divina. Le due parole in ebraico pane, lechem (לחם) e sale, melach  (מלח) contengono le stesse lettere. Il desiderio umano è di superare la severità del sale con la gentilezza del pane, di conseguenza non mettiamo il sale (severità) sul pane (gentilezza), ma al contrario intingiamo il pane nel sale, cioè sovrapponiamo la gentilezza alla severità.

Inoltre, molti hanno l’abitudine di intingere il pane nel sale tre volte. La ragione è che il valore numerico di lechem è 78. Dividendo l’energia di 78 per 3, otteniamo 26, il valore numerico del nome di Dio. Questo ci ricorda che “…l’uomo non vive soltanto di pane, ma vive di tutto quello che la bocca dell’Eterno avrà ordinato” (Deuteronomio 8:3).

Yayoi Kusama, Accumulazione No. 1, 1963, Museum of Modern Art (MoMA), New York. (https://www.flickr.com/photos/wyliepoon/49224544328)

Si intinga o no la challah nel sale, è comunque importante avere il sale a tavola. 

Perchè? Che cosa ha a che vedere il sale con il nostro legame con Dio? Il sale è un conservante che non si rovina e non si deteriora mai. Questa proprietà fa del sale la perfetta metafora dell’eterna alleanza di Dio con il popolo Ebraico.

Concludo con uno spunto offerto da Rashi. Il grandissimo commentatore medievale interpreta molto spesso lechem come cibo in generale, ad esempio in Bereshit/Gen.31:54; Bereshit/Gen.49:20; Vaikrah/Lev.03:11; Vaikrah/Lev.21:17; Vaikrah/Lev.21:21, ecc. a volte citando Yirməyāhū/ Ger. 11:19, Daniel/Dan. 05: 01 o Qoelet/Eccl.10:19, ma nell’episodio già ricordato in cui Avraham si offre di portare pat lechem (un boccone di pane) ai visitatori, dicendo ai suoi ospiti “permettete che vada a prendere un boccone di pane e ristoratevi il cuore”, Rashi mostra di non avere dubbio alcuno che si debba intendere lechem propriamente come pane e commenta: “nella Torah, nei Neviim (Profeti) e nei Ketubim (Agiografi) noi troviamo che il pane (lechem) ristora il cuore (lev)”. Cosa può voler dire ciò in ultima analisi?

Rashi ha colto nelle parole e nel gesto di Avraham una qualità essenziale ed incomparabile che il pane possiede rispetto a qualsiasi altro alimento. Il comportamento di Avraham Avinu infatti ci ammonisce che con un pugno di farina, ma con la perizia e l’attenzione necessari per ottenere quel pane si può fare molto. Offrendo un boccone di pane allo straniero che ci visita, al Signore che ci incontra nella veste del prossimo, si può provare la gioia unica della condivisione, in grado di ristorare non solo il corpo ma la mente e il cuore stessi. 


Luigi Viola, artista, già Docente presso le Accademie di Belle Arti di Brera e di Venezia


Immagine di copertina
Luigi Viola, Pane, 2024, fotografia.


  1. Sabato, giornata di totale riposo. Il Pane della presenza erano dodici pani non lievitati, di pura farina di grano, chiamati challah (sing.) nella Torah, posti perpetuamente in vista nel Tempio, posati su un tavolo d’oro all’interno della stanza della Menorah e cambiati ad ogni Shabbat. ↩︎
  2. Precetto. ↩︎
  3. Il Nome. Uno dei nomi di Dio. ↩︎
  4. Insegnamento. I primi cinque dei ventiquattro libri del Tanakh, detti Pentateuco dai cristiani  ↩︎
  5. corno di montone utilizzato come strumento musicale. Viene utilizzato durante alcune funzioni religiose ebraiche ed in particolar modo durante Rosh haShana e Yom Kippur. ↩︎
  6. Pane dal Cielo, Pane dalla Terra, Pane dell’Afflizione o della Domanda (dalla radice laanot = rispondere). ↩︎
  7. Acronimo di HaKadosh Baruch Hu, lett. il Santo sia Benedetto, ovvero la Divinità ↩︎
  8. Compiendo la mitzvah di Hafrashàt Challà, la berachà da recitare è la seguente: Baruch Atà Adonai Eloheinu Melech haOlam asher kiddeshanu bemitzvotav vetzivanu lehafrisch challah terumah. ↩︎
  9. La normativa sul cibo e sugli altri prodotti destinati al consumo del popolo ebraico che ne certifica l’idoneità sulla base delle regole prescritto nella Torah, come interpretate dall’esegesi del Talmud e codificate nello Shulchan Aruch. Kasher (ashk. Kosher) significa adatto, adeguato, conforme, consentito ↩︎
  10. Neutrale, quindi non facente parte delle due principali categorie della carne e del latte o derivati, che non possono essere consumate nello stesso pasto. Sono parve tutti i vegetali, i frutti, i cereali, i pesci consentiti. Essi sono associabili pertanto sia al latte e derivati che alla carne. ↩︎
  11. Il canto composto nel XVI secolo e.v. dal cabbalista di Tzfat Shlomo HaLevi Alkabetz che viene cantato in Sinagoga il venerdì sera per l’entrata dello Shabbat (Kabbalat Shabbat). ↩︎
  12. Letteralmente capo dell’anno, è uno dei tre capodanni previsti dal calendario ebraico. Definito nella Torah Yom Teruahil giorno del suono dello Shofar(Vaikrà/Lev.23:24). La letteratura rabbinica lo descrive come Yom haDin “il giorno del giudizio” e Yom haZikkaron “il giorno del ricordo“. ↩︎
  13. commemora la ridedicazione del Secondo Tempio all’epoca della rivolta dei Maccabei contro l’Impero seleucide. È anche conosciuta come la Festa delle luci (Hag ha’urim).
    Hanukkah viene osservata per otto notti e giorni, a partire dal 25 ° giorno di Kislev secondo il calendario ebraico, che ricorre tra fine novembre e fine dicembre nel calendario gregoriano. La festività si osserva accendendo le candele di un candelabro con nove rami, chiamato hanukkiah. Un ramo viene in genere posizionato sopra o sotto gli altri e la sua candela viene utilizzata per accendere le altre otto candele. Questa candela unica si chiama shamash (servente).
    Ogni notte, una candela aggiuntiva viene accesa dallo shamash procedendo a posizionare le candele da destra verso sinistra, ma accendendole da sinistra verso destra, fino a quando tutte e otto le candele vengono accese insieme nell’ultima notte della Festa. E’ usanza giocare a dreidel (piccole trottole) e mangiare cibi a base di olio, come latkes e sufganiyot, e latticini. ↩︎
  14. Candelabro a sette braccia. ↩︎
  15. Lett. Le sorti. In riferimento all’episodio descritto nella Meghillat Ester. La regina Ester è protagonista della salvezza del popolo ebraico, sottraendolo alle mire distruttive dI Haman, perfido ministro del re Hachashverosh. ↩︎
  16. Lett. Ordine. Riferito all’insieme delle parti che compongono il pasto rituale e all’ordine delle benedizioni, preghiere, letture, canti che lo accompagnano. ↩︎
  17. Lett. Passaggio. La Pasqua ebraica. ↩︎

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