Il 5 e 6 aprile 2024 alle Gallerie d’Italia – Vicenza, accanto alle azioni e agli interventi di Classici Contro, con i giovani del gruppo di ricerca Aletheia Ca’ Foscari abbiamo messo in opera un esperimento nuovo, un laboratorio aperto di idee intorno ai temi della Parrhesia, ovvero della libertà di parola come fondamento della democrazia e come bene comune.
Abbiamo visto insieme in azione i giovani dei licei e delle università. E abbiamo accolto anche i liberi cittadini. Per ragionare insieme sulla libertà di parola, a cominciare dai paradigmi mitici del pensiero e dalle esperienze più antiche dell’isegoria, l’uguaglianza di parola, e della parrhesia, il diritto di dire tutto davanti a tutti dell’Atene classica del V sec. a.C. Con tutti i drammi e i problemi di ogni giorno, antichi e moderni. Sono questi gli archetipi del pensiero. Servono per capire meglio di cosa siamo fatti, anche noi oggi. Ma abbiamo sentito risuonare le profezie di Cassandra, una donna, una giovane davanti a tutta la città, davanti al potere e alla violenza della guerra. Tenta inutilmente di salvare la gente e la città di Troia. Anzi, abbiamo ascoltato molte Cassandre, ricercatrici, docenti, studentesse che hanno parlato con la voce dell’antica profetessa di Apollo, con le parole che possono salvarci nei momenti più difficili. Sono lo specchio della nostra vita e delle nostre difficoltà, paradigmi indispensabili, categorie cognitive del pensiero e della storia.
PARRHESIA
libertà di parola
CLASSICI CONTRO
ALETHEIA LABORATORIO DI LETTERATURA GRECA CA’ FOSCARI
http://www.unive.it/classicicontro
CASSANDRA, LA VERITÀ E L’ERRORE
Sabato 6 aprile 2024, ore 10.00-12.30
Gallerie d’Italia – Vicenza
Preludio musicale di
Raffaella Polino (Voce) – Francesco Rocco (pianoforte)
H. Berlioz (1803-1869), ‘Le Troyens’, “Les Grecs ont disparu… Malheureux roi”, aria di Cassandre
Sabina Mazzoldi
Cassandra: le scomode parole di una donna
Alice Bonandini
Cassandra: parole profetiche e parole represse
Cristina Pace
I no delle donne: Cassandra, Clitemestra e la resistenza silenziosa
Valeria Melis
Donne e parrhesia nel teatro attico
Katia Barbaresco
Cassandra, la voce altra nella città
Camilla Rampi
Come una menade
Maddalena Anna Salbucci
Ultima Nox
Davide Recci
Il destino di Priamo, Ecuba, Polissena, Cassandra
Miriam Bertini
La voce di Cassandra contamina la città in festa
I
Sabina Mazzoldi
CASSANDRA,
LE SCOMODE PAROLE
DI UNA DONNA
«Non fare la Cassandra!». Dire la verità è faticoso per chi la dice e per chi la ascolta. Nel nostro mondo è pieno di Cassandre non ascoltate, che pure continuano a proclamare le loro verità scomode: sulla guerra, sull’emergenza ambientale, sull’uso ossessivo dei devices e dei social, sull’alienazione dell’uomo contemporaneo. A Troia nessuno sopportava quella giovinetta, amata e maledetta da Apollo, che gridava sempre morte e distruzione per i propri cari e la propria città; emarginata, disprezzata, rinchiusa nel palazzo o gettata in carcere, Cassandra non poteva fare a meno di dire tutto quello che vedeva con gli occhi profetici di chi è capace di cogliere evidenze invisibili ai più. Per le Cassandre di tutti i tempi è doloroso vedere, perché tutte le volte subiscono la violenza della verità e la violenza di chi questa verità non vuole vederla; eppure non possono farne a meno e si assumono la responsabilità di dirla. Quando le Cassandre tacciono e il silenzio sottentra al logos, la Storia si realizza, la verità trionfa: l’irreparabile è successo. E allora, solo allora, qualcuno riconosce loro che avevano ragione. È il 1983 quando Christa Wolf pubblica la sua Cassandra, «una figura molto significativa per il nostro tempo – scrive negli anni della Guerra Fredda e della corsa agli armamenti –, mi ha interessato cogliere il punto cruciale, alla nascita della nostra cultura, in cui è iniziata quell’alienazione che adesso ci porta vicini all’autodistruzione». Nel tempo della Storia, come nel tempo del mito, ci vuole coraggio ad ascoltare Cassandra, perché vuol dire riconoscere evidenze, assumersi responsabilità, compiere scelte scomode e controcorrente, che salvino dall’irreparabile. Più facile rifiutare, censurare, deridere, infangare, umiliare. Ma per fortuna tutte le Storie hanno le loro Cassandre: «Mi accorgo che non riesco a credere a quello che so» dice la Cassandra della Wolf quando vede la sua stessa morte e attende con coraggiosa paura che il suo destino si compia.
II
Alice Bonandini
CASSANDRA,
PAROLE PROFETICHE
E PAROLE REPRESSE
Ciò che caratterizza Cassandra non è il dono profetico: è il legame indissolubile tra dono profetico e punizione. Di più: tra dono profetico, punizione e violenza subìta.
Ben tre volte, infatti, il racconto mitico la rende vittima della violenza maschile.
Secondo la versione più nota, Apollo fa dono a Cassandra del potere profetico, ma poi, essendo stato sessualmente rifiutato, la condanna a non essere creduta mai. Cassandra, insomma, viene punita per aver detto no.
All’apice della spirale di violenza che la avviluppa c’è Agamennone, e anche in questo caso violenza, costrizione e parola si mescolano: Cassandra non è solo fatta prigioniera, ridotta a schiava sessuale, deportata a forza, massacrata a colpi di scure; Cassandra, al tempo stesso, è costretta a conoscere tutto in anticipo, a dire tutto – compresa la sua stessa morte, compresi i delitti indicibili di un padre che ha divorato i propri figli, di una moglie che fa a pezzi il marito, di un figlio che ucciderà sua madre. Ma si può dire ciò che è indicibile senza esserne contaminati?
Prima di Agamennone, però, c’era stato Aiace Oileo, che, mentre intorno Troia bruciava, aveva sorpreso Cassandra, rifugiatasi nel tempio di Atena in cerca di protezione, e l’aveva violentata. Atena, racconta il mito, si era voltata dall’altra parte: per non contaminarsi con la violenza in terra aveva levato gli occhi al cielo.
Un atto empio come quello di Aiace, infatti, non macchia solo chi lo compie, ma anche chi lo vede e chi lo dice. I Romani lo chiamano nefas: letteralmente, “atto indicibile”.
Questo, forse, ci fa intuire qualcosa di più sul dono-condanna di Cassandra, sulla sua facoltà di vedere tutto, di dire tutto. Per non finire annientati, davanti alla verità sembra necessario un filtro – come la cecità dell’indovino Tiresia, o di Edipo, che per aver troppo visto, troppo conosciuto decide di accecarsi.
Chi vede la verità direttamente non è un privilegiato, ma un condannato, perché la verità può incenerire, come accade a Semele, la madre di Dioniso, che, dopo aver visto per la prima volta il suo amante, Zeus, nella sua vera natura, muore, fulminata all’istante.
La verità pietrifica, come lo sguardo di Medusa; in questo continuo gioco di specchi, è allora significativo come proprio Medusa avesse avuto un destino gemello rispetto a quello di Cassandra: anche lei, in origine, era una ragazza bellissima; anche lei era stata stuprata da un dio sull’altare di Atena; anche a lei, la dea non era venuta in soccorso: anzi, l’aveva ritenuta colpevole, e per questo l’aveva trasformata in un mostro che ai mortali non è concesso di guardare in faccia.
Del filtro che separa (protegge?) i mortali dalla verità dà una raffigurazione efficacissima, e inquietante, l’Eneide. Nel descrivere la caduta di Troia, Virgilio racconta che Venere dissipa la nubis che “vela gli occhi dei mortali”, e per un attimo a Enea appaiono Poseidone, Era, Atena intenti a fare scempio dei Troiani e della loro città, aizzati dagli incitamenti di Zeus.
Nella sua interezza, la verità appartiene al divino, non all’umano, e per l’uomo affermarla per intero è hybris, perché conoscerla per intero è insostenibile.
III
Cristina Pace
CASSANDRA,
I NO DELLE DONNE
Nel recente spettacolo Of the Nightingale I Envy the Fate della compagnia Motus, Cassandra è un uccello: una creatura, interpretata da una giovane danzatrice, le cui poche parole si perdono in una partitura sonora di fischi e strepiti animaleschi. Proviamo a lasciarci guidare da questa rilettura contemporanea…
La matrice, è evidente, è Eschilo: il riferimento poetico all’usignolo, a cui il coro dell’Agamennone paragonava il lamento della profetessa (v. 1146), si dilata fino a investire la natura stessa del personaggio. Come un animale braccato e atterrito, Cassandra, in effetti, non può comunicare: è questa, più dell’atroce morte che l’attende, la sua tragedia. Ma qual è la ragione di questa sua condizione? Per Eschilo, lo sappiamo, essa è diretta conseguenza di un NO: il rifiuto che un giorno la giovane ha opposto ad Apollo, quando, concedendole il dono della profezia, ha cercato di possederla.
E anche nella traduzione scenica dei Motus è un NO, una sola grande parola tracciata col sangue da Cassandra sul terreno, a dare inizio al racconto. Il pensiero, inevitabilmente, va a tutti i NO inascoltati delle donne: sminuiti, soffocati, messi in dubbio. Come, nei processi per stupro, i NO “che volevano dire sì”. O come i NO impossibili di tanti racconti emersi grazie al movimento #metoo: chi non accetta è screditata per sempre.
Rileggiamo Eschilo, allora: scopriamo che neanche Cassandra ha potuto gridare il suo rifiuto. Al coro, che la interroga sulla natura sessuale del suo rapporto con Apollo, confida: «Ho dato il mio consenso e l’ho ingannato» (v. 1208). Non ci è dato sapere esattamente come, ma Cassandra dice chiaramente che per sfuggire allo stupro ha finto di dare il suo consenso. Ha taciuto, ha mentito, si è sottratta – e, in ogni caso, l’ha pagata cara.
L’inganno, dunque: quella che in letteratura appare così spesso come un’inquietante propensione tipicamente femminile, è l’unica risorsa che permette a Cassandra di difendersi, almeno provvisoriamente, da Apollo. Ma è la medesima risorsa cui, su più larga scala, fa ricorso la stessa Clitemestra, nelle cui mani anche Cassandra cadrà vittima: è solo mentendo e ingannando che la regina, come rivendicherà alla fine, può ottenere la sua rivincita (anche questa, momentanea) sul re che le ha ucciso la figlia.
Nelle pieghe di questo racconto di violenze, emerge allora un dato interessante. In un mondo che le costringe e le imbavaglia, i NO delle donne sono nascosti: nella reticenza, nel rifiuto silenzioso del consenso. In questa prospettiva, la capacità di “meditare inganni” di tanti personaggi femminili non rappresenta soltanto una delle tante declinazioni dello stereotipo di matrice maschile, ma assume il senso di una disperata strategia di resistenza, l’unico modo per continuare a dire, tacitamente e inutilmente, di no.
IV
Valeria Melis
CASSANDRA,
L’ADOLESCENTE SACCENTE
(CHE PORTA PURE SFIGA)
“Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva”. Così è presentato, sul sito di Giulio Einaudi Editore, il libro di Michela Murgia Stai zitta – e altre nove frasi che non vogliamo sentire più. Da Anna Politkovskaja, assassinata in circostanze che restano “misteriose”, a Greta Thunberg, definita da Vittorio Feltri “una adolescente racchia e saccente” che “porta pure sfiga” (FQ Magazine), di Cassandre la storia, anche contemporanea, ne conta parecchie. Cassandra. Forse non sarà stata “racchia”, ma che i Troiani l’abbiano considerata un’adolescente fin troppo saccente è certo.
E, se ancor oggi parlare può essere l’attività più sovversiva per una donna, nella Grecia antica la “muliebre favella” era praticamente vietata. Intendiamoci: non c’era alcuna legge scritta in merito. E, tuttavia, in un contesto in cui le leggi non scritte valevano quanto le norme scritte e nel quale non c’era alcuna costituzione a disporre che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero” (Costituzione della Repubblica italiana, art. 21), tacere e passare sotto silenzio, per le donne, era non solo un dovere, ma la più alta delle virtù. A dirlo è Pericle nel suo discorso in onore ai caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso (Thuc. 2.45.2): “Se devo anche accennare qualcosa sulla virtù di tutte quelle donne che ora resteranno vedove, dirò tutto con una breve esortazione: grande sarà il vostro onore, se non sarete inferiori alla natura che vi è propria, e grande sarà l’onore di colei sulla cui virtù o sul cui vizio vi sia la minor fama possibile tra gli uomini”.
Dunque, la donna virtuosa non parla e non fa parlare di sé: figuriamoci se quell’adolescente di Cassandra, per giunta appartenente alla categoria “porta-sfiga” dei profeti (come anche sappiamo dall’Edipo re di Sofocle), poteva ficcare il naso in questioni di “politica estera”!
CASSANDRA,
IL PENSIERO DIFFERENTE
TRIFIODORO
Iliou Halosis
CLASSICI CONTRO
PARRHESIA
ALETHEIA LABORATORIO DI LETTERATURA GRECA
V
Camilla Rampi
CASSANDRA,
LA FOLLIA DELLA MENADE
Si mise a correre come una giovenca impazzita
Trifiodoro, Iliou Halosis 360, trad. D. Fermi 2023
Cassandra è una parthenos dromas, una vergine in corsa. Sono le parole di Poseidone a caratterizzare in questo modo la figlia di Priamo nel prologo delle Troiane di Euripide (42), connotando il personaggio fin dal principio con quel fare forsennato tipico delle Baccanti. È il furor bacchico a far muovere velocemente le donne invasate da Dioniso. Riprendendo lo schema tragico, anche in Trifiodoro l’ingresso della profetessa è segnato da rapidità e mancanza di compostezza. Tuttavia, se per le Baccanti la corsa è parte integrante dell’estasi, l’agitazione di Cassandra assume tutt’altro significato.
Cassandra, dice Trifiodoro, non è come una donna di Tracia «ferita dall’aulo soave di Dioniso che furoreggia sui monti» (Trifiodoro 375). O meglio sì, ma peggio. Peggio perché la sua furia deriva dal dio sbagliato, Apollo: è stato lui a renderla una profetessa eccellente e destinata a non essere creduta. Le cause di questo destino sono a noi note da altre fonti, come l’Alessandra di Licofrone e la Biblioteca di Apollodoro. La prima attestazione pervenutaci si trova nell’Agamennone di Eschilo, dove Cassandra rivela di aver ricevuto il dono della profezia da Apollo. In seguito, però, dopo aver acconsentito ad un’unione carnale, ingannò il dio, che la punì.
Ha le insegne della profezia e della poesia di Apollo, ma le agita come se fossero quelle di Dioniso: un’immagine alienante, che priva Cassandra della credibilità profetica. Parla di bellicoso corteo: prefigura un komos, danza di Dioniso e vertice della festa, ma nel nome di Ares, quindi sotto il segno della distruzione.
Il destino di non essere ascoltate dall’autorità maschile accomuna le donne troiane: l’immagine dipinta da Trifiodoro sembra ricalcare quella di Andromaca, paragonata nell’Iliade a una menade (Iliade 22.460). Nel sesto libro, Andromaca corre a cercare di convincere Ettore a non andare incontro a quella che sa essere morte certa. Ma lei, donna, così come Cassandra, non può cambiare il corso degli eventi. Ettore le ricorda le sue mansioni: il telaio e la conocchia.
Gli effetti delle profezie in preda ad una mania menadica sono catastrofici. Properzio, nella tredicesima elegia del terzo libro, si definisce “novella Cassandra”: lui, come «menade iliadica», prevede la caduta di Roma sotto il peso delle sue ricchezze. Cassandra-menade diviene per antonomasia il simbolo di una verità scomoda e pertanto ignorata. Cassandra è sola. Oie dice Quinto Smirneo (12.525), sola Virgilio (Eneide 3.183). Una contro tutti.
Cassandra «delirava posseduta dal dio» (Trifiodoro 374). Ma attenzione, questo è ciò che appare agli occhi degli altri. La prospettiva è rovesciata nelle parole della profetessa. Folli, posseduti dagli dei! Sono loro, gli altri, a non capire che si stanno dirigendo verso l’ultima notte. Ma non c’è possibilità di comunicazione fra i Troiani accecati e la profetessa, che scaglia sguardi stravolti coi capelli scomposti delle Baccanti, privata di ogni credibilità anche nell’aspetto.
VI
Maddalena Anna Salbucci
ULTIMA NOX
«O miseri, che infausto cavallo è questo che state portando
Triphiodorus, Iliou Halosis 376-381
in preda a follia, sciagurati, impazienti di raggiungere
l’ultima vostra notte, l’abominio della guerra, il sonno senza risveglio?
Dei nemici questo è il bellicoso corteo; già, ne ho timore,
i travagliati sogni di Ecuba dolente producono i frutti,
volge al termine l’anno a lungo atteso, quello della fine della guerra
Sono queste le parole con cui Cassandra inizia il suo discorso: si tratta di parole dirette, taglienti, che non lasciano spazio ad immaginazione o interpretazioni di alcun tipo. La giovane sta predicendo la fine, la distruzione della sua città, l’ultima notte della sua famiglia e del suo popolo.
Osserviamo anzitutto una serie di elementi che enfatizzano in modo particolare la serietà del messaggio di Cassandra, già dal verso 376: il cavallo, considerato come un dono dai troiani, è definito ἀνάρσιον, epiteto epico che designa il nemico. È qui che il cavallo di legno diventa il nemico per definizione.
Al verso seguente, vi è poi la formula ὑστατίην ἐπί νύκτα (verso l’ultima notte) che segna il tempo della persis: una definizione senza ritorno. Subito dopo, Cassandra allude al sonno senza risveglio, νήγρετον ὕπνον: l’immagine dolce del sonno si trasforma in qualcosa di spaventoso, ovvero il sonno dal quale non c’è risveglio, la morte. In modo analogo, anche il komos, la danza di Dioniso, vertice della festa, diventa danza di Ares, dunque di guerra, e quindi corteo bellicoso, con i nemici pronti a portare distruzione.
Infine, Cassandra fa riferimento ai travagliati sogni di Ecuba, inerenti alla fine di Troia. È da questo momento in poi che la giovane inizierà a inserire nel suo discorso una serie parole appartenenti alla sfera semantica del parto: anche in questo caso, tuttavia, un simbolo positivo di vita (quale è il parto) si trasforma in qualcosa di mostruoso, ovvero in un parto di morte.
È attraverso queste parole che Cassandra si fa portatrice di un messaggio scomodo, che i Troiani, in festa, non intendono ascoltare: è così che la ragazza diventa simbolo della parrhesia, ovvero della libertà di parola, manifestando pubblicamente il suo pensiero, senza ricorrere ad artifici linguistici o ad un lessico emblematico. Il messaggio di Cassandra è, infatti, chiaro, comprensibile, ma difficile da ascoltare e da accettare. Cassandra diventa simbolo della parrhesia anche grazie alla sua sincerità: crede davvero in quello che dice, e agisce non per secondi fini, ma per il bene comune, per salvare il suo popolo.
Come molti altri, tuttavia, sarà condannata alla solitudine e all’emarginazione per aver avuto il coraggio di esprimere un’opinione diversa da quella della maggioranza.
VII
Davide Recci
IL DESTINO DI PRIAMO,
LA FINE DI TROIA
Per te, o padre, e per te, madre, mi affliggo, quali mali presto
(Trifiodoro, Iliou Halosis 398-409, trad. D. Fermi 2023)
a entrambi toccheranno! Tu, o padre, miseramente assassinato
400 giacerai presso il grande altare di Zeus Erceo;
o madre che hai generato prole insigne, privata della forma umana
gli dèi ti muteranno in cagna furiosa a causa dei figli.
O divina Polissena, per te che presso la terra patria
sei seppellita poche lacrime verserò: oh, se qualcuno
405 degli Argivi uccidesse anche me, dopo i pianti per te!
Che bisogno ho di protrarre la mia esistenza, se è in serbo per me
più miserevole morte, e una terra straniera è destinata a coprirmi?
Tali trame contro di me tesse la signora, e contro lo stesso re,
Agamennone, tesse un destino che lo ricompensa per le tante fatiche.
Ai versi 398-409 della Iliou Halosis di Trifiodoro Cassandra si affligge per la sorte del padre e della madre, della sorella e infine di se stessa. I membri della famiglia reale di Troia sembrano un paradigma della città nel complesso, emblema delle sventure dei suoi cittadini. L’assassinio del padre Priamo presso l’altare di Zeus Erceo, protettore dei confini, si configura come una duplice contaminazione, essendo stati violati uno spazio sacro e i codici tradizionali della guerra che impongono uno scontro tra due contendenti di simile forza. Il destino di Ecuba è ugualmente straziante: testimone della persis nelle Troiane di Euripide, durante il terribile viaggio verso la schiavitù, privata della forma umana, gli dei la muteranno in cagna furiosa a seguito delle atrocità viste e subite (cf. Dio Chrys. 11.154 ὑπό τε τοῦ μεγέθους τῶν κακῶν). La sorte di Polissena, seppellita in patria, è persino desiderabile a confronto di quella di Cassandra, per la quale è in serbo una morte più miserevole.
Il passo oggetto di indagine presenta ulteriori notevoli spunti per la comprensione del concetto di parrhesia: Cassandra non disdegna di riportare davanti ai Troiani festanti per la fine della guerra i particolari più atroci e aberranti, lontano dai topoi e dai temi di conservazione e discussione che si addicono nella determinata situazione e nel determinato contesto della “festa della liberazione” (Camerotto 2022, 145-181) per la fine della guerra durata lunghi anni (Trifiodoro apre il suo poema con il termine τέρμα, “fine”).
In particolare, è rilevante il destino di Ecuba (401s.), la madre ἀριστοτόκεια (v. 401), colei “che ha generato ottima prole”, riferito a mio avviso anche alla nobiltà della regina di Troia. Della fine della illustre moglie del sovrano, la figlia profetessa non risparmia neppure i particolari più atroci, terribili e aberranti: la privazione della forma umana (βροτέης ἀπὸ μορφῆς, 401) e la conseguente metamorfosi in cagna, episodio all’origine del nome della tomba di Ecuba, Cinossema (cf. Eur. Hec. 1273, vd. Battezzato 2010, 298; 2018, 253), costituiscono agli occhi del popolo troiano e dei genitori della sacerdotessa di Apollo argomenti troppo crudi e non consoni alla festività del momento (in altre parole, al kairós). Il padre le risponde dinanzi ai Troiani accusandola di essere una profetessa di sventura, pazza e afflitta dalla gioia dei Troiani (424); viene pronunciato un discorso celebrativo dell’inizio della pace (425-432). I Troiani non vogliono ascoltare la voce libera di verità. Lo sguardo profetico di Cassandra è addirittura accusato di contaminare la sacra città di Ilio (435) festante con le sue parole menzognere (434), giudicate offensive della condizione regale dei suoi genitori: in Eur. Tro. 427-430 la sacerdotessa non rivelerà la metamorfosi in cagna a sua madre, che l’avrebbe percepita come un insulto alla propria dignità di regina (Lee 1997, 145, n. 430). Cassandra viene ricondotta nella sua stanza. La parrhesia viene negata, o dal padre (simbolo della volontà collettiva) o, come nelle Troiane (vd. supra), dall’atteggiamento di autocensura di Cassandra: il cavallo funesto sfila pomposamente nelle vie della città, rovina per i Teucri e le Troiane dal lungo peplo.
- L. Battezzato, Euripide. Ecuba, Milano 2010
- L. Battezzato, Euripides. Hecuba, Cambridge 2018.
- A. Camerotto, Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, Milano-Udine 2022
- K. H. Lee, Εuripides. Troades, London 1997
VIII
Miriam Bertini
LA VOCE DI CASSANDRA
CONTAMINA LA CITTÀ IN FESTA
ἔρρ’ οὕτως …
οὐδ’ ἔτι µαντιπόλοιο τεῆς κεχρήµεθα ϕωνῆς.“Vattene, senza indugi! …
Trifiodoro, Iliou Halosis 436-438
non abbiamo più bisogno della tua voce fatidica”.
Con queste parole crudeli Priamo conclude il proprio discorso: davanti a tutti il sovrano umilia la principessa, il padre ripudia la propria figlia. Mancano ormai poche ore alla carneficina, al genocidio che gli Achei hanno così argutamente organizzato, ingannando i cuori e le menti di tutti i Troiani.
Tutti tranne Cassandra, ovviamente. Senza saperlo, con queste ultime parole, Priamo si congeda dalla figlia per sempre.
Cassandra, definita dal sovrano παρθένε τολµήεσσα (433 “vergine temeraria, giovane che osa”), viene colpevolizzata pubblicamente: da troppo tempo ormai il suo atteggiamento folle e incompreso è considerato un’influenza negativa per la città, e ora ha superato ogni limite. Ormai agli occhi di tutti è divenuta semplicemente un oggetto fastidioso, un ostacolo ingombrante da togliere di mezzo il prima possibile.
Il nemico è fuggito, la guerra è finita, ma i Troiani non riescono a festeggiare a causa della disturbante presenza della giovane e della sua “follia selvaggia” (434 ἄγρια µαργαίνουσα), che non permette loro di dedicarsi alle danze e ai banchetti. Ilio è ormai la città in pace, tutti ci vogliono credere.
Dopo dieci anni di guerra, ormai, i Troiani sono stanchi: non vogliono più saperne di lutto, di distruzione, di paura e di sofferenza: οὐ γὰρ ἔτι Τροίης ὑπὸ τείχεσι δεῖµα λέλειπται (437 “non c’è più spazio per la paura sotto le mura di Troia”) – ma soprattutto, non vogliono più saperne di Cassandra, della sua voce “fatidica, che porta presagi” (439 µαντιπόλοιο) e del suo essere una ἑτερόϕρονα κούρην, una “giovane dal pensiero differente”, che per tutti i Troiani festanti non è in grado di vivere dentro i confini della società.
A Troia, quindi, non c’è più spazio per Cassandra: la giovane viene trascinata via, rinchiusa “nelle stanze più lontane del palazzo”, come le principesse delle fiabe, nella “stanza più remota della torre più alta”. Questa volta, però, nessun principe si presenterà per salvarla.
Accasciata παρθενίῳ κλιντῆρι, “sul letto verginale” (441) piange, disperata, ben conscia del proprio destino, ossia della propria morte.
Mentre fuori i festeggiamenti riprendono, Cassandra è sola, abbandonata alle proprie terrificanti visioni, “già vedeva l’assalto del fuoco sulle mura della patria incendiata”. Imprigionata tra le mura di una città che sta per essere rasa al suolo, stretta nella morsa di una maledizione da cui non ha mai avuto scampo.
IX
Raffaella Polino
MALHEUREUX PEUPLE
Tu ne m’écoutes pas,
Les Grecs ont disparu… Malheureux Roi!, aria di Cassandra, Les Troyens, Hector Berlioz
tu ne veux rien comprendre,
malheureux peuple!
Tu non mi ascolti,
tu non vuoi capire alcunché,
o sciagurato popolo!
Questo è il grido disperato della Cassandra di Berlioz che, in un drammatico crescendo musicale, cerca invano di scuotere le coscienze del padre sovrano, Priamo, e del popolo troiano, i quali non l’ascoltano né vogliono ascoltarla. Nell’opera Les Troyens, composta tra il 1856 e il 1859, il compositore e librettista francese Hector Berlioz dimostra di aver compreso le tante sfaccettature del personaggio di Cassandra e del suo dramma. La profetessa entra in scena sola, agitata e disperata, subito dopo una scena corale di festante euforia per la fine (apparente) della guerra. Il contrasto è stridente e drammaturgicamente potente. Cassandra, pur consapevole dell’inesorabilità della sciagura che incombe su di lei e su tutta Troia («De l’affreux destin qui m’oppresse, il faut subir l’inexorable loi»), fatica a rassegnarsi e a più riprese nel corso di tutto il primo atto supplica il suo popolo di prestarle ascolto. In risposta viene accusata di essere folle e fuori di sé e viene invece invitata ad aprire il suo cuore alla speranza (così ad esempio, da Corebo: «Laisse entrer en ton cœur un doux rayon d’espoir»). È proprio la speranza ad accecare i Troiani esausti dopo dieci anni di guerra e a renderli insensibili agli ammonimenti di Cassandra. Persino durante la presa della città, il coro, nel riconoscere amaramente l’adempimento delle profezie di colei che era creduta delirante, stenta comunque a rinunciare a quell’entusiasmo e a quel gioioso ottimismo che aveva pervaso Troia appena poche ore prima: mentre i soldati nemici incombono su di loro, le donne troiane si rivolgono a Cassandra e le chiedono con un’ingenuità disarmante: «Faut-il bannir tout espoir de nos coeurs?». Ne Les Troyens, la speranza è l’oppio dei Troiani e la condanna di Cassandra.
EPILOGO
Non ci sono possibilità. Alle parole di Cassandra nessuno può credere. Questo è il duplice dono del dio Apollo, lo può sapere solo chi non è dentro agli eventi. Decide tutto la risposta di Priamo. È il padre, è il grande re di Troia. È un simbolo. La sua parola vale per tutta la città, il destino di Troia sta nella volontà collettiva, non c’è qualcuno che ha una colpa, la responsabilità è di tutti, è la gioia per la guerra che non c’è più. Cassandra, allora, è per tutti, una profetessa maledetta, preda di una rabbiosa follia. Tutto è rovesciato, a preparare la catastrofe. La città di Troia non sa ascoltare la voce di una giovane, la voce di una donna.
La città di Troia è perduta.
CLASSICI CONTRO 2024 PARRHESIA
Cassandra, l’ultima parrhesia
a cura di Alberto Camerotto e Valeria Melis
(21.04.2024)
Immagine di copertina: «Apollo e Cassandra», uno degli affreschi del salone nero, l’ultimo ritrovamento effettuato a Pompei.