Una voce profonda (e profana): la pace e la guerra secondo Omero, di Alberto Camerotto

La pace è il bene, la guerra è il male: è un pensiero polare che sta tra gli archetipi classici più antichi che portiamo sempre con noi. Ce ne parla Omero, il nostro primo poietes dall’VIII sec. a.C.: nella rappresentazione del mondo che troviamo nel XVIII canto dell’Iliade, nell’ekphrasis dello scudo di Achille, opera del dio Efesto, questa idea sta al centro di tutto. Vediamo due città a confronto. La città della pace è il simbolo della felicità, con tutti i segni che fanno la civiltà degli uomini. Sì. la civiltà degli uomini mortali, anche con i loro limiti. Se ne ricorda con eco epica Ugo Foscolo nei Sepolcri: Dal dí che nozze e tribunali ed are / diero alle umane belve esser pietose / di se stesse e d’ altrui. Tra i segni della pace, in questa città felice vi sono nozze e banchetti, i momenti più belli della vita degli uomini. Cortei accompagnano le spose ai talami nuziali, con le torce accese, e risuona ovunque nelle vie della bella città il canto dell’imeneo, cori di danzatori volteggiano, tra i flauti e le cetre. E sulle porte delle case le donne con i loro occhi stanno a guardare, ammirate.

Nello Scudo di Eracle, un poema epico attribuito ad Esiodo, si ripetono i medesimi segni, come paradigmi dell’immaginario antico: feste e musiche nella città della pace, le fanciulle agitano le fiaccole, i giovani seguono danzando, canti e musiche di syringes e auloi, di flauti, che riempiono di suoni di gioia le immagini. Altrove nella città v’è un altro komos, un altro bellissimo corteo festivo, ancora con danze, canti, riso e suoni di flauti. Insomma tutta la città è piena di feste e banchetti. Ma come segni della pace vi sono anche le gare sportive e i premi per i vincitori. E poi vi sono le opere degli uomini e la loro prosperità, l’aratura, la mietitura, la vendemmia, la pigiatura, il profumo intenso del mosto.

Hydria a figure rosse – Sessione di allenamento di danza. The Trustees of The British Museum (World History Encyclopedia)

Ma nella felicità e nell’abbondanza della pace nessuno può dimenticare che esiste il male della guerra, l’orrore più grande, opera degli stessi uomini mortali. V’è la città altra da questo, il contrario della vita, la città assediata con due eserciti contrapposti e col fascino strano, un fascino terribile, delle armi e del loro splendore. Col quale bisogna fare i conti. Gli uomini combattono davanti alle porte, mentre sulle mura e sulle torri le donne, i vecchi e i bambini guardano con trepidazione e vedono ciò che accade e ciò che non vorrebbero mai vedere. Gli occhi delle donne sono i testimoni, sanno e ricordano che cos’è la violenza. In campo vi sono gli dei della guerra, Ares e Atena, ma soprattutto vi sono le personificazioni mostruose della lotta, del tumulto della battaglia e della strage, Eris, Kydoimos e la funesta Ker con i colori del sangue e della morte che fanno rabbrividire. In più per Esiodo vi sono le Keres al plurale e la mostruosa Achlys: «Gli uomini combattevano rivestiti delle armi della guerra, / gli uni per la loro città e per i loro figli / ad allontanare la rovina, gli altri bramosi di saccheggiare. / Molti giacevano a terra, ma i più ancora nella mischia combattevano; e le donne sulle solide torri / di bronzo mandavano alte grida e si laceravano le guance».

Duello a cavallo tra Achille e Pentesilea. Lato A di un’anfora attica con collo a figure nere, ca. 520 a.C. Da Vulci – Staatliche Antikensammlungendi Monaco di Baviera (Wikimedia Commons)

Le donne vedono e sanno, sono memoria e voce premonitrice. Nell’Iliade sono le parole accorate di una giovane sposa, in un racconto nel racconto di un’altra guerra più antica tra Cureti ed Etoli per la città di Calidone (Iliade IX), che ricordano a Meleagro – e a tutti, anche a noi – quali sono gli orrori ultimi della guerra e della città che cade nell’assedio. È il male più grande, che non lascia speranza ma solo dolore. V’è nei pochi versi la forza di una definizione, emistichio per emistichio è disegnato tutto il senso più ripugnante della violenza della guerra: tutti i maschi adulti, i difensori, sono uccisi, il fuoco distrugge la città, i nemici si portano via le donne e i bambini. Ma l’esito di regola è anche più feroce, come vogliono gli Achei per la città dei Troiani (Iliade VI): «Non uno ne sfugga alla ripida morte / sotto le nostre mani, nemmeno quello che in grembo la madre / porti ancor piccolo, neppure lui se la cavi, ma insieme tutti / muoiano quelli di Ilio, senza esequie e senza ricordo!». Rimangono solo le donne, per divenire preda e bottino, per essere oggetto di un’altra violenza, degli stupri di guerra e della hybris dei vincitori.

Priamo è ucciso da Neottolemo, figlio di Achille, che lo percuote col cadavere di Astianatte, dettaglio di un’anfora attica a figure nere, ca. 520 a.C.–510 a.C. Museo del Louvre (Wikimedia Commons)

Nella guerra, allora, non v’è nulla di eroico. Fanno orrore perfino gli dei che si schierano con gli uni o con gli altri. Ognuno ha la sua maledizione, non la benedizione del suo dio. Quello che vediamo nella guerra sono le donne che tentano inutilmente di difendere la vita dei propri figli. Non v’è spazio per la pietà. È la strage degli innocenti, i bambini, le donne, i vecchi. Tutto crolla e brucia intorno, i bambini sono strappati dalle mani delle madri, sono sgozzati con le spade o scaraventati dalle mura o dalle torri. Alle madri rimane solo il lutto e il destino di sofferenza, ma anche la memoria di ciò che hanno dovuto vedere e vivere. La memoria di che cos’è la guerra: lo vediamo tutti i giorni, è semplicemente la fine della civiltà, della città della pace e della vita. Ogni violenza, da una parte e dall’altra, è una vergogna, un’infamia, e un monito nella voce della poesia che viene da lontano. Sono le storie più antiche, lontane di tremila anni. Le vediamo con i nostri occhi nelle guerre più stolte e folli che ci circondano. Che non ci lasciano speranza. Ma non dobbiamo chiudere gli occhi, non dobbiamo tacere. È il senso della libertà del pensiero e della parola, che diventa testimonianza e responsabilità di tutti. Con o senza dio, ognuno deve fare la sua parte.

Alberto Camerotto, grecista dell’Università Ca’ Foscari di Venezia

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Immagine di copertina
Ilioupersis (la caduta di Troia), dettaglio. Lato A di una kylix attica a figure rosse, ca. 490 a.C. Da Vulci – Museo del Louvre (Wikimedia Commons)


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